martedì 26 luglio 2016

Il "Saltozoppo" di Gioacchino Criaco, Feltrinelli 2015.

L’ultimo romanzo di Gioacchino Criaco, Il saltozoppo, Feltrinelli 2015, ha subito  riportato alla mia memoria  le forme  burlesche di un gioco tradizionale  praticato fino agli anni ’60 nei nostri piccoli paesi. Ciancapuglieglia, questo il suo nome dialettale, ovvero pollastra azzoppata  che camminava saltando su una zampa. Da bambino ne ho viste un bel po’ muoversi sbilenche per le vie polverose della mia ruga.  Spesso erano proprio i ragazzini ad azzopparle  con la scusa che tanto era un gioco privo di vera cattiveria. Già, privo di cattiveria, ma per il piccolo animale domestico significava la morte imminente perché in quello stato poco serviva al suo padrone.  Ne Il saltozoppo Criaco  utilizza l’antico gioco come metafora per sottolineare il destino dei tre principali protagonisti del romanzo (Julien Therime, Agnese  Dominici e suo fratello Alberto). Ma  protagonista  è  pure l’Aspromonte “che pasce la gente a odio e amore” dove ancora feroci insidie tribali si mescolano con una modernità male assorbita. Ma non starò qui a riassumere per intero i fatti, sarà il lettore a penetrarvi come meglio crede. Il saltozoppo differisce alquanto dalla struttura stilistica dei precedenti impegni letterari di Criaco, specialmente da  Anime nere (Rubbettino, 2008) che ha dato ampia  notorietà allo scrittore di Africo Nuovo. E questo, molto probabilmente, perché egli avverte da sempre  il bisogno vitale di non farsi intrappolare da un progetto creativo che  inevitabilmente peschi nello stagno antropologico della criminalità locridea. Un rischio che  Criaco, per fortuna, ha sempre tenuto  presente,  relegato ai margini. Ciò, appunto, per non essere additato come narratore  esclusivo delle “anime nere” che abbondano per le nostre contrade e non solo. La conseguenza - altrimenti- sarebbe funesta:  a furia di stigmatizzare le tristi vicende del mondo criminale,  prevarrebbe  il rischio di rendere circoscritto e  non di vasto respiro l’humus  della sua scrittura.  Provo ammirazione e rispetto per questo  nostro conterraneo  impegnato a  limare la sua tecnica narrativa nel tentativo, finora riuscito, di costruire un  suo specifico linguaggio non riconducibile all’abbondante e variegato mondo del sottobosco letterario che, specie in Calabria, cresce senza pudore alcuno. Mi preme, in questa sede,   sottolineare il modulo stilistico (a più voci, polifonico) adoperato dall’artista ne Il saltozoppo. L’io narrante delinea le fattezze, le gesta dei protagonisti lasciando da parte pretese conoscitive  troppo vincolanti. Voglio dire che l’autore, specie in questo romanzo, non intende più rimanere allo scoperto,  muta la sua azione stilistica in una sorta  di narrativa  a più voci  (Il geco, la ninfa, il cucciolo, il serpente, l’aquila, Silvestro)  che nel narrare  se stesse svelano, non senza dolore, le forme della loro immersione  nella fitta logica della faide  secolari e per questo ancora “anime nere” che  solo dopo varie perizie, prove fatte d’angoscia e qualche pentimento, riescono (Agnese e Jiulien, soprattutto) a comprendere, forse, che i rivoli di sangue sparso per l’Aspromonte  comportano solo morte e distruzione . (“E poi venne la peste. Il vento nero soffiò forte, oscurando gli usci e spezzando le favole…”).  Ma è una polifonia strategica, in realtà il burattinaio è sempre l’autore, che cerca spazi umano-culturali più vasti, anche se è ancora presto per lasciarsi alle spalle il mondo che lo ha partorito e dove, finalmente, oltre al sangue vi è la presenza di un amore profondo e pregno di promesse, quello tra Julien ed Agnese, che si manifesta in tutta la sua dirompenza solo nei luoghi di nascita: nelle calde acque del mare Ionio, che accarezza i loro corpi per poi ricoprirli di sabbia tiepida simile a carezze materne. Certo, è ancora amore giovanile, passionale e pregno di erotismo, tuttavia è amore eterno, mai scalfito dal dubbio e per questo in grado di scontrarsi con la realtà malavitosa del Nord che li obbligherà a scelte di vita drammatiche: morte, carcere, sequestri e conseguenti ricatti. Ma quando il lettore, scavando nelle intense pagine del romanzo, sembra rassegnato ad un epilogo funesto (“Ma il desiderio dei bambini non mutano il destino costruito dai grandi”), certo che i protagonisti  non  hanno saputo (o potuto) scrollarsi di dosso le malsane regole dei luoghi d’origine fatte di antiche faide (sviluppatesi dagli Aragonesi  in poi), traffici e altre trame illegali (droga in  primis), viene fuori un finale aperto che ben si collega ad un desiderio espresso a metà romanzo da uno dei protagonisti: “La rivoglio la mia favola. Per sempre”.






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