sabato 25 ottobre 2014


L’OPINIONE. AL CINEMA CON “ANIME NERE”

SCRITTO DVINCENZO STRANIERI IL . PUBBLICATO IN AGGIORNAMENTICOPERTINECULTURA

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Un mio amico calabrese che vive al Nord è rimasto sorpreso quando, tempo addietro, gli dissi per telefono che presto sarei andato al cinema a vedere Anime nere del regista Francesco Munzi, film liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco (Rubbettino 2008) e che, al recente Festival del cinema di Venezia, aveva riscosso un buon successo. «Perché vai a vedere un film che tratta di cose che ben conosci. Vivi nel cuore geografico che ha partorito la ‘ndrangheta ed i suoi famuli. Sarà di certo un film che ricalcherà i soliti stereotipi», così ebbe a rimproverarmi benevolmente il mio amico. É persona intelligente, nonostante abbia lasciato la nostra terra da circa trent’anni, conosce bene il suo/nostro mondo d’origine. Qui aveva lottato con impegno contro i soprusi, i suoi comizi erano vibranti e ricchi di passione giovanile. Ma il suo consiglio non poteva trovare il mio consenso.
ANDAVO AL CINEMA soprattutto perché un buon film è sempre un’opera d’arte ed anche perché io sono socratico per convinzione (so di non sapere), certo che c’è sempre qualcosa d’apprendere. Inoltre, fatto non secondario, avevo quattro anni or sono recensito positivamente il libro di Gioacchino Criaco. Il film ha inizio, una strana ansia mi assale, respiro profondamente alla ricerca di una concentrazione che mi consenta di seguire una storia che narra dal di dentro un mondo incastonato nell’alveo antropologico della ‘ndrangheta. È un’opera volutamente lenta, il regista fa lievitare le singole vicende evitando la presenza d’intrepidi eroi. Il sangue non scorre a fiumi ed è pure assente l’eco assordante di fucili ultramoderni in grado di lacerare il silenzio notturno dell’Aspromonte. Guardo le immagini volutamente velate da un buio trasparente, ascolto le locuzioni dialettali dei protagonisti. Non ho bisogno di leggere i sottotitoli. É una lingua che conosco bene. Il pensiero corre veloce, la mente s’arrovella, cerca un filo conduttore al quale aggrapparsi per non cadere in errore. Mi soccorre la pausa tra un tempo e l’altro.
PRENDO APPUNTI. Mia moglie li sbircia incuriosita. Mi chiede perché le scene, specie i primi piani, non sono nitide. Le dico che è una scelta del regista. Di anime nere come la notte si tratta, infatti. «É vero – mi risponde – ma devi ammettere che in una terra arsa dal sole ci si aspetterebbe squarci di luce abbagliante. Ed invece anche le parole dei protagonisti sembrano prigioniere del buio che incombe su uomini e cose». Comincia il secondo tempo, la mia attenzione è al massimo, ascolto e guardo tutto quello che Munzi ha costruito con fatica greve, stante che i fondi erogati dalle nostre istituzioni locali sono stati esigui se non del tutto assenti. Siamo al finale, drammatico quanto inaspettato. Anche i miei due amici, che hanno assistito al film nella fila di fianco alla mia, sono rimasti spiazzati, increduli per una chiusa così tragica, pregna di profonda intensità emotiva. Luciano, infatti, uccide suo fratello Rocco (che fino ad allora s’era goduto lo status sociale raggiunto nel regno del malaffare milanese) colpevole di non avere saputo proteggere Leo (figlio ventenne di Luciano) eliminato da un gruppo rivale per avere progettato all’insaputa di tutti l’uccisione di un potente boss locale.
LEO VIENE consegnato ai suoi aguzzini dal suo migliore amico (vai a fidarti!). Prima di lui era stato ucciso Luigi, il terzo dei fratelli Carbone, dedito al traffico internazionale di droga. Solo Luciano vive stabilmente in Calabria in compagnia del suo gregge di capre. Egli è lontano da traffici e violenze varie. Prima di ritornare all’epilogo, mi preme sottolineare come Munzi abbia saputo mettere in evidenza (tutto il film stimola questa riflessione) lo scontro generazionale all’interno delle ‘ndrine: la vecchia ‘ndrangheta (composta da quanti negli anni ‘70 avevano eliminato i capi-bastoni del reggino), e quella dei nostri giorni sempre più smaniosa di guadagnare in fretta denaro e prestigio all’interno della criminalità organizzata che, come si sa, è divenuta un’holding internazionale. Il film presenta delle peculiarità che lo rendono fortemente originale. Munzi, infatti, compie un viaggio all’interno delle forme culturali di una famiglia calabrese che si rivela disomogenea e non sempre ligia alle regole del mondo ‘ndranghetistico.
TRE FRATELLI, segnati dall’uccisione del padre per via di una faida che per lungo tempo aveva insanguinato il territorio alimentando sgomento e terrore nelle popolazioni del basso Aspromonte orientale. Lo Stato (rappresentato dalle forze dell’ordine) è presente solo quando vengono uccisi Luigi e Leo. Lo è per prassi, idem la chiesa, rappresentata da un giovane sacerdote che, durante il funerale del giovane Leo, proferisce un’omelia incapace, specie in quel frangente, di produrre alcuna consolazione. I cuori sono in piena accelerazione, pronti a scoppiare per la rabbia ed il dolore, nonché per il desiderio di una pronta vendetta. Non ci sono magistrati, organi inquirenti impegnati a contrastare le ‘ndrine, cosicché non ci sono tribunali, testimoni, avvocati alle prese con alibi, prove e/o possibili codicilli in grado di aiutare gli imputati di turno. Non è un giudizio negativo contro la Giustizia e/o la Chiesa, a Munzi interessa che sia la famiglia Carbone a denudarsi, e questo senza filtri o intromissioni che ne modificherebbero la vera natura. Trattasi, quindi, dell’affresco amaro di un mondo ancora legato ad un passato/presente capace di partorire anime nere pronte ad immolarsi in nome d’insani valori.
IL FILM DIFFERISCE alquanto dal romanzo di Criaco, ma non per questo ne violenta la morfologia. É una libera interpretazione del regista, infatti. Andrebbe visto almeno due volte un film. Di certo qualcosa mi è sfuggito, ma la tarantella no (ballo secolare musicato in modo semplice ma in grado di creare ritmi vorticosi nella mente dei partecipanti). Luigi guarda gli altri ballare appoggiato ad un palo della vecchia baracca che ospita alcune famiglie legate alla criminalità organizzata. Balla da fermo, mima estasiato i suoi ritmi, sembra posseduto, ne vuole gustare ogni attimo, sente la frescura della montagna amica dove ha vissuto da piccolo. Quell’antico ballo gli comunica visioni paradisiache, un’inimitabile pace interiore. E questo a poche ore della sua tragica esecuzione da parte di un gruppo rivale. E le donne? Quale il loro ruolo? Sono donne senza sorriso (mogli, figlie e nipoti), sottomesse a figure maschili che inseguono facili guadagni a costo della vita. Ogni giorno le sfiora la morte ed i loro cuori si gonfiano d’eterno dolore. Hanno anche l’ingrato compito di riproporre la ritualità (ereditata dal mondo greco-romano) dei funerali di un tempo, quelli dove si recitano litanie (con atteggiamenti da prèfiche) inneggianti le qualità positive del defunto. Ed anche interminabili pianti capaci di esaurire le poche lacrime custodite con parsimonia, stante che, purtroppo, un morto tira l’altro. Ed è bene tenere sempre pronto l’abito scuro. E ciò in contrasto con l’eleganza della bionda moglie di Rocco, donna del Nord che non riesce a capire il mondo del marito e che desidera tornare al più presto nella sua Milano dove fino ad allora aveva goduto di rispetto e privilegi (si era mai domandata il motivo di tanto benessere?).
DICEVO DEL tragico epilogo. Le interpretazioni sono molteplici. È certo, però, che senza quel tipo di finale lo scenario avrebbe avuto come protagonista un mondo senza scampo, privo di qualsiasi prospettiva. È vero, ciò costa sangue, dolore atroce; il tutto, infatti, rimbalza pesantemente all’interno della famiglia Carbone, dei suoi pochi sopravvissuti. Ho letto su facebook diversi post che invitano il regista a realizzare al più presto la continuazione del film, una sorta di Anime nere 2, 3, 4 etc. Mi auguro che ciò non accada, spero tanto che questo film sia considerato un’opera cult (un classico) in grado di sfidare il tempo.