martedì 7 gennaio 2014

AMORE E INDIGNAZIONE NELL'ANTROPOLOGIA NARRATA DI VITO TETI ( L'Ora della Calabria, 7 gennaio 2014, pag.31).



Vito Teti è un uomo da sempre impegnato ad affinare -  con non poca tribolazione- la difficile arte della “restanza”, suggestivo neologismo da lui coniato nel suo recente saggio-racconto Pietre di pane (Un’ antropologia del restare), Quodlibet, Macerata 2011, dove appunto ci spiega che rimanere in paese ”… non è stata, per tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità: restare è stata un’avventura, un atto di incoscienza , forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Senza enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione, un esercizio che mette in crisi le retoriche dell’identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa  esperienza del tempo”. 
Mi piace l’antropologia narrata - se cosi è permesso dire- da tempo  messa in atto, con passione e competenza, dal Prof. Teti e dai suoi  collaboratori presso l’Unical, particolarmente nell’ambito delle pregevoli iniziative del Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo diretto dal medesimo Teti. 
Un linguaggio che si oppone a qualsiasi manierismo linguistico, in particolar modo a quello accademico tout court, volutamente tronfio a dismisura.
Un linguaggio che narra dal di dentro la materia viva delle proprie indagini demo-etno-antropologiche.
Ricerche effettuate  sul campo, tra la gente, incontrando il territorio, la sua storia passata  e  quella recente.
Ma, in questa sede, intendo ribadire un’altra mia convinzione, ovvero che Vito Teti, antropologo di professione,   si commuove e  scrive come un poeta, scandaglia i luoghi della memoria con la stessa ansietà di chi crede nella forza dei versi.
La sua scrittura, infatti, cede alla commozione, diventa lirica all’occorrenza, si trasforma in melanconia creativa quando sorvola paesaggi lunari, deserti dell’anima, paesi abbandonati che vorrebbero, se aiutati, parlare il linguaggio dei poveri, degli emigranti, di chi ha dovuto lasciare per sempre un mondo conchiuso, con le sue storie, le sue radici, i suoi sogni, per reinventare altrove quanto lasciato in paese.
Non mi aspettavo la comparsa, almeno per  ora, di un’opera come Maledetto Sud.
Ciò  perché , specialmente negli ultimi tempi, Teti non si è per nulla risparmiato, lavorando alacremente sia in ambito accademico che scientifico. E dunque quest’ultima sua fatica risulta un’ inaspettata quanto gradita sorpresa, nonché un ulteriore  atto d’amore  verso la nostra terra.
Spesso si scrive nella mente, qui si elaborano idee, si appuntano annotazioni ritenute importanti, per poi, all’occorrenza, trasformare il tutto in scrittura.
Così è stato per  Teti -specialmente nell’ultimo decennio- che ha  accantonato forme e contenuti di quanto ora invece ci propone con questa sua ultima fatica oggetto di numerose e belle recensioni su giornali nazionali e non.
Ma torniamo al linguaggio di Maledetto Sud che – se ben analizzato-  rivela lo sforzo dell’autore nell’edificare un particolare modulo stilistico; ora discorsivo, quasi colloquiale, per poi ritornare ad una semantica necessariamente saggistica, stante, appunto, che non parliamo né di un romanzo né di  un racconto.
E’ il linguaggio di chi parla dal di dentro, di chi ben conosce la materia di cui scrive.
Dal di dentro vuol dire non sfuggire né ai meriti né ai demeriti appartenenti al nostro meridione, significa produrre, esprimere  non mere analisi assolutorie  ma anche e soprattutto  coraggiose assunzioni di responsabilità .
Amore e indignazione (odio non è un vocabolo che si addice a Teti) sono sentimenti necessariamente insiti in chi conosce pregi e difetti del proprio mondo d’origine.
Vi è pure la gelosia che altri  maltrattino, spesso con cinismo e insipienza, la storia antropologica del nostro Sud, che  lo maledicano in eterno, in assenza di una buona difesa che ne ostacoli pregiudizi ed ataviche avversioni.  
In alcune pagine,  Teti sembra ridare voce particolarmente a scrittori del calibro di  Corrado Alvaro, Saverio Strati , Francesco Perri, Mario la Cava dai lui amati e studiati con passione quasi viscerale.
E’ bello, pur nella sua amarezza di fondo, ricordare  a mo’ di esempio le parole del protagonista di  Noi Lazzaroni, romanzo di Saverio Strati( Mondadori, 1972) che, passeggiando per le linde calabrese, si diceva : Vai o non vai al Sud, il Sud ti è dentro come una maledizione “.
In altre pagine, invece, sembra riecheggiare un’annotazione- amara quanto veritiera- di Corrado Alvaro sul nostro mondo :” Dei Greci, i meridionali hanno preso il loro carattere di mitomani. E inventano favole sulla loro vita che in realtà è disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni, si fa l'accusa di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono, è così bello!”.
Pertanto,  è bene non accostarsi a Maledetto Sud con propensioni consolatorie, ricercando soluzioni facili agli eterni bisogni del meridione d’Italia.
A Teti, infatti, non poteva sfuggire il fatto che con le antiche retoriche  non si progredisce, che  ormai non bastano più le solite argomentazioni storiche (La proverbiale “Magna Grecia”, la “Malaunità” e conseguente ”Questione Meridionale, la” ndrangheta” e tutto il resto), per giustificare la nostra inerzia, il nostro atavico fatalismo. 
Oggi, purtroppo,  dobbiamo amaramente registrare che quanti tentano di valorizzare le ricchezze e la bellezza del Sud non sempre trovano risposte/proposte convinte e concrete presso i nuovi ceti sociali e politici, incapaci di diven­tare classe dirigente desiderosa di liberare, davvero e per sempre, questo luogo.  
Servono buona volontà e soprattutto onestà intellettuale, perché l’oggetto del contendere ha una sua storia particolare che, però, non ne deve compromettere a mo’ di alibi tutte le possibilità di riscatto scartate o rifiutate a priori sia dalla classe politica meridionale (ne abbiamo mai avuto una?) che dalla  maggioranza del popolo meridionale  ostinatamente soggiogato dalle solite false promesse che hanno compromesso la nostra  storia passata e recente.
Dobbiamo fare severa autocritica, invece, spazzare per sempre la nostra attuale (non che in passato le cose stessero meglio) classe politica che, più dei pregiudizi del Nord, contribuisce al nostro attuale degrado socio-economico.
Bisogna smetterla di frignare, di  delegare alla malasorte i nostri problemi (veri, reali, concreti, per carità!). Non siamo stati predestinati a vivere nell’arretratezza e nell’indigenza. 
Fissiamocelo  bene in testa una volta per tutte, questo intende trasmetterci con il  suo prezioso lavoro l’amico Vito Teti, amico non solo mio, naturalmente, ma anche e soprattutto del suo/nostro Maledetto Sud.




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