venerdì 20 settembre 2013

POETI CONTADINI/ PASTORI DELLA VALLATA LA VERDE NEL PRIMO CINQUANTENNIO DEL NOVECENTO



                                                di  Vincenzo Stranieri
Nel numero scorso abbiamo affrontato il tema della poesia popolare alla luce di un’interessante inchiesta giornalistica di “Vie Nuove” (anno IX, n, 1, 4 gennaio 1953, p. 12) a proposito di alcuni poeti contadini/pastori della vallata “La Verde”.
I temi della vocazione poetica comprendono rivendicazioni di tipo economico, “U zappaturi” (Michele Strati, u Ddia) vuole che il padrone gli paghi le sue afflitte giornate trascorse a sudare nelle sue terre, zappando dall’alba al tramonto, l’unica donna (Carmela Barletta) analfabeta, rimasta vedova giovanissima, maledice il suo destino, la sua solitudine che pare non avere mai fine tanto é il dramma esistenziale che l’avviluppa; uno dei pastori, (Francesco Pulitanò) ha idee politiche ben precise, sa di Gramsci e dell’importanza storica  del l° maggio; e poi (Pulitanò Rocco Domenico, inato nagione chiara),  del Bianco e ara del Bonamico)pastore analfabeta che ha saputo scrivere nella mente e tramandato a futura memoria poesie in vernacolo dense di  pulsioni erotiche verso la donna amata, che, causa la tradizione, non poteva corrispondere palesemente i suoi sentimenti, facendo ancor  più soffrire  il suo spasimante, che, all’occorrenza, si proponeva a suoi occhi (dell’amata) con serenate pregne di invocazioni amorose e  speranze per il domani. Le serenate un tempo venivano accompagnate dal suono delle ciaramelle, poi, negli anni 50-60, furono sostituite dalla chitarra.

Rocco Domenico Pulitanò (pastore/poeta) Casignana 1866- Caraffa 1955.
Per la sua carnagione bianchissima era detto “U jancu”. Nacque a Casignana ma visse a Caraffa, dove si sposò giovanissimo, facendo il pastore e componendo versi. Aveva una voce magnifica e cantava lui stesso le sue canzoni, accompagnato dal suono delle ciaramelle; era, come si dice oggi, un cantautore.
Era conosciuto semplicemente come “u poeta”. Abitava in una capanna ricavata nella pietra della montagna, assai distante dal paese. Il suo letto era un giaciglio per terra, accantto alla mangiatoia dell’asino. La sua unica ricchezza erano due capre. Massaru Rocco era analfabeta, nondimeno riusciva a custodire nella sua memoria migliaia di versi, che sgorgavano improvvise dal suo cuore e in qualsiasi momento era pronto a recitarle. Gli argomenti della sua poesia sono quelli della tradizione popolare, l’amore vario e contrastante per la bella, lo sdegno per il rivale, la gelosia, il lamento. Egli era dell’idea che ogni canto non doveva essere pià lungo di due “piedi” per complessivi otto versi. Pare che fosse sconveniente superare tale misura, quasi che si macasse di sirpetto verso chi stava ad ascoltarlo. E’ incalcolabile il numero di versi che questo grande poeta senza scuola ha composto e quindi trascritto nella sua mente in tanti anni di vita (è morto all’età di 90 anni),

Non pensu morti
Giojùzza, lu mê cori si dispera,
volìa pammi ti vìju ‘n tutti l’uri.
Non pensu morti e non pensu galera,
pensu sulu di tia mi sû patroni.
Pensu stâ vita, ca se a vostra leva,
lu pozzu diri ca levu lu hjùri,
cà di li belli siti la bandiera,
cû vcui nô ppatta nô ssuli a nô lluna.


Mi jevi preparando li vistati
Donna chjna di inganni e tra- dimenti, a mmia jevi parando li viscati?
Cercavi ntâ ‘na caggia mî mi menti
E mî mi privi di la libertati!
Non sugnu i chigli rcegli chi tu pensi, chi pê lu civu rèstanu mbiglàti!
Eu sugnu ‘nu rcegliuzzu assai valenti, tiru lu civu e li dassu parati.


Ci bella leggi (scritta in occasione  del referendum popolare del 1948, quando l’Italia passò dalla monarchia alla Repubblica).
Guarda chi bella leggi chi vinn’ora:
l’omu mî si fa re, senza curuna;
Ed è propostu pammi vaj a Roma,
mî si mpossessa dâ sèggia putruna!

Pagai nu sonaturi
Pagai nu sonaturi pemmi sona,
caminandu mi canta na canzuna;
l’arju si trovava lampi e trona
ed eu mi cuturnava a la fortuna.
Lu ventu mi portau la bona nova,
ca la forti timpesta pocu dura:
ma si pe sorta càrmanu li trona
mi consu all’orto e parru cu la luna.



Mentri ti viju
Mentri ti viju a ssa finestra stari,
ti pregu, anima mia, non ti ndi jiri:
dassami st’affritti o cchi sazijairi,
mentri a li brazza non ti pozzu aviri.
Magu nun sugnu, no, non stagnari
Ca non guarandu a mia tu po’ moriri;
se pe lo beni non mi voi amari
non ti jiri ammucciandu e non ridiri.




Maru cu’ di li donni beni spera
Maru cu’ di li donni beni spera
epacciu cu’ li servi e cu’ l’adura.
Sa’ sinu a quando ti mostranu cera?
Sinu a chi novu amanti si procura.
E po’ t’inganna, ti tradi e ti nega.
E po’ ti teni pe cchiù menu cura.
Cistu mi custa a mia pe cosa vera:
ca non c’è donna nomm’è traditura.
Non penso morte
Gioia mia grande, il cuore si dispera, chè vorrebbe vederti  in tutte l’ore. Non penso morte e non penso galera, ma di venire in possesso di te. Penso che se ci uniamo, gioia vera,
potrò ben dire che ho sposato un fiore, chè delle belle siete la bandiera, con voi non patta né sole, né luna.
Mi stavi preparado la pània
Donna piena d’inganni e tradimenti, la pània mi tenevi preparata?
Tu mi volevi in gabbia immantinente, Per poi privarmi della libertà? Non sono di quegli uccelli che tu pensi,
che per cibo restano incollati;
Io sono un uccelletto assai valente, mi prendo il cibo ed evito imboscate.


Che bella legge
Che bella legge hanno tirato fuori!
L’uomo diventa re, senza corona;
e gli è permesso di portarsi a Roma,
per stabilirsi sulla sua poltrona.

Pagai nu sonaturi
Pagai, perché suonasse, un suonatore,-camminando cantasse una canzone:- l’aria era scossa da lampi e da tuoni- ed io chiedevo aiuto alla fortuna.- Il vento mi portò la buona nuova- che la forte tempesta poco dura:- se, per fortuna, ritorna il sereno- vado nell’orto e parlo con la luna.
Mentri ti viju
Se tivedo affacciata alla finestra- ti prego, anima mia, non te ne andate:- lasciami questi afflitti occhi saziare- se nelle braccia non ti posso avere,- Ma go non sono, non aver paura,- chè semi guardi, no, non puoi morire,- se per lo  meno non mi vuoi amare- non andare a nasconderti e non ridere.
Maru cu’ di li donni beni spera
Misero chi da donne bene spera- e pazzo chi lerve e chi le adora.- Sai fino a quando ti fanno buon viso?Fino a che un nuovo amante si procurano.-E poi t’inganna, ti tradisce e nega- e poi ti tiene in pochissima cura.- Questo mi costa a me per cosa vera:- non c’è donna che non sia “traditora”.


FRANCESCO PULITANO’ (Pastore) Caraffa del Bianco 1889…
E’ il poeta politico della contrada e le sue poesie riflettono le necessità del popolo in mezzo al quale vive. Neanche il Pulitanò è andato a scuola perché c’erano   le pecore da guardare, e certi  lussi solo i signori se li potevano permettere. Pulitanò, al contrario di Massaro Rocco, ha però girato il mondo; è stato nelle Americhe a cavare carbone per tanti anni, trovandosi alla fine più povero di prima. In Calabria ha pascolato le pecore di molti padroni, con lunghi intervelli del viaggio in America e i sette anni della prima guerra mondiale.  Nella sua vita ha raccolto solo fatica e disillusioni, ma ha imparato a lottare anche con la sua ispirazione ed i suoi versi. Nella sua poesia le necessità e le sofferenze del popolo sono espresse come un lungo grido di rivolta. Egli ha una visione politica piuttosto chiara e completa. In molte delle sue poesie è riflesso il sentimento d’angoscia e di ribellione del popolo contro la guerra, e ha dedicato versi commossi ad Antonio Gramsci. Era  dotato di uno spirito giovanile e combattivo. Per questa posizione insita nelle sue poesie, il parroco del paese gli faceva la guerra.

Primu Maju

Primu maju ben venutu,
durci simbulu amatu.
Da tant’anni ti si perdutu :
dì un po’: undi si statu?
Chi t’avi trattenutu?
Certu fu lu rinnegatu
di Benitu l’omu astutu:
ma cu sangu l’ha pagatu
Fu la guerra d’u fascismu
ch’i catini ha spezzatu,
primu maju liberatu
porta a nui la libertà.

Cuntr’a barbari e tiranni
lotteremu sin’a morti,
hannu uccisu a Matteotti,
chista grandi nobiltà
Si consacri nella storia
stu martiri socialista,
Matteotti alla memoria
pe  la nostra libertà.

U Savoja già scumparsu
mai cchiù ritornerà;
non misura lu cumpassu
ma d’arretu tornerà.

Ndi detti guerra e distruzioni
di ricchezzi e viti umani,
ma in Italia li suprani
non regneranno cchjù.
E se no sempri luttamu
nta fami e nto disaggiu,
viva sempri u primu maggio
porta a nui la libertà.

Michele Strati (u DDia), S.Agata 1889-1967( bracciante)

Bracciante analfabeta, ha sofferto difficoltà che avrebbero annientato chiunque (ha avuto una famiglia numerosa). Si è difeso  con la lotta politica e la poesia. La guerra (1915-18) lo aveva reso quasi sordo, e,  per tale motivo, era solito ricordare che la belligeranza  porta solo lutti e disgrazie,  che bisognava adoperarsi perché simili tragedie non  avvenissero più. Con suoi versi, pregni di sdegno e tensione rivendicativa, egli è riuscito a portare su di un  piano alto di scansione drammatica la dura e squallida esperienza del bracciantato meridionale.

A vita d’u jornataru

 Non fannu attru sti cani assassini,
ogni jornu nta chiazza a passijari.
Pe primu discursu si mèntunu a diri:
“U bassu populu ndavimu a scacciari”.
Ndannu i so’ vigni ch’i loro giardini
e tutti  quanti li vonnu zzappari,
e si votanu cu inganni e cu rrisi:
“U bassu populu ndavimu a ‘vvisari”.
U garzoni u sentimu chiamari:
“Eu vi salutu, compari Micheli;
u patroni v’aspetta domani”.
Eu si domandu pe paga e pe spisa.
“Non sacciu nenti, veniti a zzappari”.
Partu a matina c’ò zappa ntè mani
E li me figghi ciangendu li dassu:
morti di fami su’ nudi e sciancati:
vegnu a la sira ciangendu  li trovu:
considerati chi cori e chi pensu”.
Eu partu e vaju nta chisti signori,
si vonnu pagari i me’ ffritti jornati.
Ffaccia la serva, rispundi e mi dici:
“Ha fattu viaggiu, tornati domani”.
Tornu a matina cu randi premura,
pemmu mi paga i me ‘ffrirri jornati.
“Ffaccia la  serva, rispundi e mi dici:
“Tornati stasira ca l’avi a scangiari”.
Vaju la sira c’u cori ntè mani.
Ffaccia la servasi e di  novu mi dici:
“Fermàti nu pocu ca ndavi a mangiari”.

Non fanno altro  questi cani assassini- che passeggiano ogni giorno in piazza,- per prima cosa incomincino a dire “-“il basso popolo dobbiamo schiacciare”.-Hanno le loro vigne, i loro giardini- e li vogliono coltivare tutti;- ammiccando tra di loro con risa di scherno:-il basso popolo dobbiamo avvisare.-Il garzone lo sentiamo chiamare:- “ Io vi saluto,compare Michele:- il padrone vi attende domani”.- Io gli domando per la paga e per la spesa.- “Ma non so niente, venire a zappare”.- Il giorno dopo parto con la zappa in mano-e lascio a casa i bimbi che piangono:- Sono morti di fame, nudi, laceri:- ritorno la sera e li trovo che piangono:- considerate il mio cuore, i miei pensieri.- Parto e vado da questi signori:- se voglio pagare le mie afflitte giornate.- Affaccia la serva, risponde e mi dice:” il padrone è in viaggio, tornate domani”:- Torno la mattina dopo  con grande premura- perché mi paghi le afflitte giornate.—Affaccia la serva, risponde e mi dice”—“Tornate stasera, che deve cambiare”.—Vado la sera con il cuore un mano, -affaccia la serva con il cuore in mano, affaccia la serva e di nuovo mi dice:--“Fermate un poco che deve mangiare”.-serva

CARMELA BARLETTA (massara-poeta)
E’ nata a S. Agata del Bianco il 1910 e morta nel 1984. E’ vissuta in un dignitoso silenzio, aperta solo a poche amiche. Ha scritte molte poesie in dialetto, e forse qualche “serenata”, come Rocco Russo suo marito, morto giovane, e provvisto di un’ironia arguta e tagliente. Anch’egli era analfabeta, e delle sue “serenate” non  è rimasta alcuna traccia.

Su com’ò hjuri che nasci ntè valli
Su com’ò hjuri che nasci ntè valli
nta voschi e spini e nta li virdi fogghi:
chigliu ingiallisci e nugliu lo cogghi,
lu caru hjuricegliu è già ppassitu:
così sarà pe mia, tutto è finitu.

Di chistu mundu non vogghiu sperari,
a fortuna di mia si pigghia jocu
e mi jietta nte prufundi d’ù mari,
cercu i sbrazziju, ma sempri è assai pocu.
Non c’è cu’ pe mia poti lavurari
ca eu non ndaju patri e mancu frati;
non mi restava ca la sula matri
e puru d’iglia Diu mi vo’ privari.
E sula o mundu comu ndajiu a fari?
Ntà vita fici sempri boni azioni,
pecchì nullu ndavi u mi voli beni?
M’odia puru lu me sangu carnali
chi non mi poti e non voli vidiri.
vorria i ndaju a forza di suffriri
mi sprezzu  u mundu e l’affetti terreni
mi amu Diu cu la cchiù pura fidi.
Mbiati chigli chi sannu lottari
nta chista tristi e burrascosa vita
nta chista valli i lacrimi e duluri!
di genti farzi,  velenosi e amari!

Accetta, cara e bona amica mia
chistu pocu d’à me’ tristi storia,
conserva beni chista poesia,
speru c’à teni  pa’ memoria mia.

Come il fior che germoglia nella valli- tra boschi  e
spine e tra le verdi foglie:- quello ingiallisce e nessuno
lo coglie,- il caro fiorellino è già appassito;- così
sarà per me,  tutto è finito.- Da questo mondo
non voglio sperare,- la fortuna di me si piglia gioco-
e mi sprofonda negli abissi del mare,- cerco di uscirne
ma sempre è assai poco.- Non c’è chi per me possa
lavorare- chè non ho padre e nemmeno fratelli;- non
mi restava che la sola madre- e pure d’essa Dio mi
vuol privare.-E sola al mondo come debbo fare?-In
vita ho fatto sempre buone azioni,- perché nessun mi
vuole ricambiare?- Mi odia pure il mio sangue carnale-
che non vorrebbe nemmeno vedermi.- Vorrei avere
la forza di soffrire- sprezzare il mondo e gli affetti
terreni- amare Dio con la più vera fede.- Beati
quelli che sanno lottare- in questa triste e burrascosa
vita- questa valle di lacrime e dolori- di gente falsa,
velenosa e amara!-
Accetta, cara e buona amica mia- questo brano della
mia triste storia,- conserva bene questa poesia,- spero
che tu la tenga a mia memoria.




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