martedì 8 febbraio 2011

IL POTERE NEL PENSIERO DI CORRADO ALVARO

                                            di Vincenzo Stranieri

Intellettuale dalle letture insospettate (tutte sotto il segno della migliore tradizione della cultura occidentale), mai si è comportato come un Bertoldo alla corte del principe. L’uomo è forte” è un romanzo dove l’impegno civile dello scrittore nato a S.Luca si evidenzia in una luce particolare.
Alcune sue tesi s’inseriscono nell’alveo del pensiero europeo del tuo tempo (Scuola di Francoforte), confermando le profondi radici etiche di Corrado Alvaro. A intervalli regolari, Corrado Alvaro (San Luca (RC), 1895- Roma 1956)) viene accusato di avere mantenuto rapporti ambigui con il fascismo, o,  addirittura, di averne fatto parte attivamente (sic!).
Egli merita rispetto e stima: non ha usato piaggerie, accordi sottobanco, rifiutando tessere e onorificenze. E’ sopravvissuto al fascismo, questo si, ma ciò non è una colpa, un difetto. Anche Croce sopravvisse al fascismo. E tanto basta. Inoltre, occupa un posto di rilievo nell’ambito della letteratura europea.
Sono anni difficili, la guerra è alle porte, il regime vorrebbe gli scrittori al servizio della propaganda, di quella demagogia che prospetta agli italiani una guerra rapida e vittoriosa. Ma Alvaro comprende che sul mondo pesa una grave minaccia: il totalitarismo, le sue leggi tentacolari, in grado di rendere la psiche umana preda di violenze efferate. E’  antifascista per indole e cultura, ma , per alcuni critici d’oggi, è colpevole di non avere compiuto atti eroici, puntando alla letteratura piuttosto che all’impegno politico militante. Era un tipo schivo che non amava mettersi in mostra. Maria Bellonci, che lo stimava molto, era colpita dalla sua timidezza, dai suoi silenzi profondi, dai suoi pochi interventi ufficiali: misurati ed accorti, sempre rispettosi della dignità altrui. Intellettuale dalle letture insospettate (tutte sotto il segno della migliore tradizione della cultura occidentale), mai si è comportato come un Bertoldo alla corte del principe. E’ morto all’età di 61 anni, un po’ presto per completare il suo progetto creativo, ma bastevole per esprimere la poliedricità intellettuale d’uomo europeo nato alle falde dell’Aspromonte (S.Luca 1895- Roma 1956). Ha cominciato con la poesia, sono poi seguite le novelle, i romanzi, e le interminabili collaborazioni ai maggiori quotidiani dell’epoca. Ha scritto centinaia di articoli: mai banali o dettati dalle circostanze. I suoi pezzi sul teatro e sul cinema sono di una bellezza non facilmente riscontrabile in altri scrittori del suo tempo. Ma vi è la colpa del suo antifascismo non militante. E qui che alcuni critici si piccano. Egli non viene giudicato nella veste di scrittore, ma per quello che non ha detto contro il regime.
E’ stato un uomo coerente con la sua natura di scrittore, e quando ha potuto ha gridato più di altri contro il fascismo. Non si è munito di alcuna patente attestante il suo impegno politico, questa è la sua vera colpa. Forse è stato uno dei pochi momenti in cui si è fidato dei suoi simili, per questo, dopo la caduta del regime, si è trovato senza giustificazioni, pensava fossero radicate nei suoi libri, nelle migliaia e migliaia di ore trascorse ad inventare il mondo, il suo lato migliore.
Alvaro va riletto, le letture passate non hanno aperto squarci abbastanza vasti nel ventre della sua opera. E’ necessario accostarsi a quest’uomo senza pregiudizi, solo così si potrà cogliere la sua intima natura che, ritornando al tema iniziale del nostro discorso, viene fuori in tutto il suo spessore ne “ L’uomo è forte”, romanzo dove l’impegno civile dello scrittore si evidenzia in una luce particolare.
Inizialmente, lo aveva intitolato “Paura sul mondo”, successivamente fu costretto a cambiarlo in “L’uomo è forte”. Ai censori dell’epoca (1938) il romanzo parve sospetto ed imposero allo scrittore il taglio di una ventina di righe e la precisazione che l’ambiente era la Russia. Il regime, così facendo, mostrò di non capire che il vero intento dell’artista era una condanna univoca delle dittature: nazifascista e stalinista. L’ambiente non era la sola Russia, dunque, ma il mondo, in particolare quella parte che mirava ad obiettivi di completa egemonia, una modo dove gravava una “grande paura”.
L’atmosfera allucinante, le fobie che gravavano sui protagonisti ci conducano a F. Kafka, precisamente al “Processo” dove J.K. simboleggia la sconfitta di un’ umanità che non ha compreso che nella vita “tutto è processo” ,”tutto fa parte del tribunale”. L’uomo forte è infatti un’opera etico – politico che narra la coercizione che il Potere opera sull’uomo allo scopo di annullarlo. Un potere, questo, che si insinua nella coscienza dei protagonisti, ledendo la loro identità e sconvolgendoli sul piano morale. E tale violenza è possibile verificarla dalle prime battute del romanzo, quando Dale, ingegnere minerario, ritorna in patria dove è ancora viva la lotta interna tra le “ bande controrivoluzionarie” e lo Stato. Ritrova Barbara, amica d’infanzia, e tra i due nasce l’amore. Ma la realtà di questo nuovo mondo è segnata dalla coercizione e dalla menzogna, un mondo dove il pensiero è considerato pericoloso. “Bisogna stare attenti a quel che si pensa. Possiamo influire sugli altri. E bisogna abituarsi a pensar bene”. Sono parole della segreteria dove lavora Dale che collimano con quanto sostenuto ossessivamente dell’Inquisitore:” Tutti pensiamo a cose delittuose. Ecco perché è giusta l’espiazione. Il male è ovunque, in tutti, se mi fosse concesso dirlo affermerei che noi amiamo il colpevole”. E sarà proprio questa psicologia forte a far commettere ai protagonisti del romanzo tradimenti e delitti. Barbara, infatti, ossessionata dall’Inquisitore, denuncia il suo compagno come ribelle. “Ella sente che Dale forse opera come tutti gli uomini, con un’energia logica e tenace, inesorabile come sono tutti gli uomini”. Barbara rifiuta l’intromissione di Dale nella sua vita, egli rappresenta il diavolo, colui che crea complotti contro i “salvatori della Patria”. “Era viva. Tra poco avrebbe deposto il suo carico di pensieri, di angosce, di terrori, era uscita dal mondo virile e turbolento, entrava nella ubbidienza e nella docilità delle regole”.
Alvaro, attraverso Barbara e Dale, coglie i motivi che stanno alla base del consenso popolare alle dittature e che collimano in modo impressionante con le tesi di F.Adorno , esponente tra i più autorevole della “Scuola di Francoforte”.  Ecco come Rossana Trifiletti Baldi sintetizza il pensiero di Adorno a proposito degli Stati totalitari: ”L’efficacia dei dittatori risiede proprio nel fatto che essi assumono un atteggiamento asociale, e riescono a recepire nella loro ribellione fittizia la reale rivolta della natura che è stata repressa in ogni individuo: gli individui vengono così manipolati nella loro ultima reazione autentica, il “ritorno del represso”, e la energia che istinti vietati mobilitano in ciascuno, viene deviata per i fini del regime”.
Anche l’istinto di Barbara viene incanalato: Mi sono fidata del mio istinto. Il mio istinto mi diceva che sarebbe stato opportuno avvertire le autorità”.
Per Adorno, inoltre, il rapporto tra il capo fascista e i suoi seguaci è di natura libidica, perché la figura del capo “diviene l’idealizzazione dell’io in ogni suo seguace, l’oggetto di una più immediata e fuorviante identificazione narcisistica”.
Anche Alvaro conosce tale processo. “Barbara sentiva accanto a costui, l’Inquisitore, quello che una donna sente accanto ad un uomo pieno di desiderio violento e naturale, di quei desideri che legano contro la loro volontà due persone. Per poco non l’abbracciava stringendole le mani. E poiché un grande amore, sia pure come quello, nutrito di uno spaventevole istinto di distruzione, di una volontà di conquista fatale, non può non turbare una donna, ella scese quelle scale come se avesse sfiorato un amore cui non poteva rispondere ma cui la legava tuttavia una legge di natura”.
Alvaro, dunque, coglie con acutezza di idee lo storpiamento che l’Inquisitore ( il Potere) opera su Barbara (l’umanità), evidenziando come “nelle prassi dei regimi totalitari, l’individuo tocca il fondo della sua estraneazione, viene spossessato anche dei suoi istinti naturali e nel momento in cui crede di essere spinto da essi e di attuare la sua ribellione, è mosso come una pedina in senso contrario ai suoi interessi”. (R.T.Baldi)
E Dale? Egli corre verso il delitto ( di Stato).
L’Inquisitore:” Noi non possiamo arrestare l’Ingegner Dale. Ci è troppo prezioso. Bisogna lasciargli il tempo di compiere la sua opera fino in fondo”. Egli, difatti, uccide il direttore della fabbrica in cui lavora credendolo una spia, ma viene catturato dalle bande controrivoluzionarie che lo affidano a Isidoro, contadino, per essere giustiziato. Nella parte finale, sostenuta da dialoghi fitti e penetranti ( la metafora su “Le trasformazioni, ovvero l’asino d’oro” di Apuleio ne è l’esempio migliore), la narrazione evoca i sentimenti di Alvaro che non sfugge alle sue responsabilità di scrittore, uomo di cultura.
Dale (Alvaro), infatti, si confronta col contadino Isidoro e non può fare a meno di constatare che “…sono ridicoli gli intellettuali, ma non c’è da disprezzarli. Sono fatti così…Ma li hanno allevati a credere che si possa accomodare ogni cosa, ragionevolmente, ragionando…”.
E’ un finale tragicamente amaro, denso di emozioni particolari. Isidoro , simbolo della cultura d’appartenenza di Dale (Alvaro), media la catarsi di quest’ultimo, l’indispensabile ritorno alle origini”.
Dale sopravvivere ai colpi sparatigli contro da Isidoro (la Risurrezione) e ritorna nel “ modo fragile e immortale, è ancora un uomo e nella fuga (che lo porterà lontano dalle maglie del Potere) troverà ancora motivi di riscatto, forse.

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