martedì 28 settembre 2010

Lettera a Giuseppe Melina (S.Agata, 16.03.1920-14.09.2001)

Lettera a Giuseppe Melina

(che per tutta la vita  ha percorso la strada impetuosa  dell’arte)  


Il  tempo ha perduto le ore. Verrà il
giorno.  Entrerò nel cielo da una bassa porta. Sarò nella resurrezione con flauti e leggerò la vicenda-romanzo.
La grazia della zagara chiuderà l’onda breve della vita. E noi ( io, te amico lettore e tutti i convocati) ci allontaneremo dal disordine delle immagini e resteremo parola.
Resto solamente tempo. Lo spazio sarà cancellato dal sorriso di Dio.
(Francesco Grisi)

Caro amico,
fortuna che hai deciso di lasciare il mondo terreno in un tempo che ti ha impedito di assistere alle scene crudeli dell’11 settembre scorso, data da segnare per sempre nel calendario negativo della storia umana, perché, tutti dicono, rappresenta una svolta epocale nei rapporti tra gli uomini e le “diverse”, non necessariamente contrapposte, realtà di cultura.
La follia omicida ha voluto inaugurare alla grande il nuovo millennio e tocca combattere il terrorismo con tutti i rischi che la cosa comporta: incertezza di poterlo fare in tempi brevi e definitivamente, alto rischio di provocare la morte di civili innocenti.
Hai sempre detto, specie negli ultimi anni della tua feconda solitudine, che questo mondo non t’apparteneva, perché troppo legato alle ferree leggi dell’economia, proteso a cancellare le tracce di qualsiasi umanesimo, ormai preda di una tecnologia mistificatrice dei valori veri.
Non eri un rivendicativo, però, non lo eri da  tempo.
T’infastidivano le lagnanze, le denunce allo Stato assente. Sapevi che il problema era l’uomo, la sua vocazione o meno a mutare il corso negativo della storia.
Davi potere ad ogni singolo uomo, non più massa, gregge belante, ma individuo in grado di guardare all’esistenza con occhio non più rassegnato.
Che tutto stava mutando in fretta, una fretta quasi parossistica, t’era chiaro da tempo, e ne soffrivi.
I rapporti stavano scomparendo, come pure l’immaginazione e la creatività.
Poco dialogo, troppa informazione/disinformazione, esaltazione dell’effimero, troppa distanza dai libri, dai dibattiti culturali e, soprattutto, dalla poesia, dal suo “sogno” utopico.
Alla tua “generazione” era stato tolto tutto: il passato, fatto dalle leggi secolari della civiltà contadina, il presente, che impediva di recitare un ruolo attivo in seno al vivere umano- culturale, il futuro, non più garantito a nessuno, avvolto nel mantello scuro delle moderne guerre fratricide.
Avevi previsto un nuovo scenario mondiale dove orde di disperati simili a cavallette avrebbero forzato le frontiere dei paesi occidentali ricchi alla disperata ricerca non solo di una collocazione economica, peraltro impossibile, ma per sostituirsi alla cultura occidentale.
E non perché, come alcuni sostengono, la storia è morta. Eri certo, nonostante l’odierno sviluppo tecnologico (che tenta di sostituirsi finanche all’uomo)che l’antagonismo di classe (meglio di forze) rimaneva ancora in piedi e che la storia doveva essere ancora letta, interpreta e scritta.
Ciò come motivo di speranza, perché la storia è il segreto della vita, al contrario la stagnazione o “quiete storica” rappresenta il viatico di nuove sciagure.
Eri preoccupato per il calo d’interesse verso la poesia. Altre erano le passioni, altre erano  le emozioni forti.
Mentre la poesia è l’uomo nel suo divenire storico- intellettuale, le neo - emozioni ne sono il decadimento  consumato sotto il segno di una neo- vacuità.
Restava l’arte, unica difesa in grado d’opporsi al moderno genocidio dei valori.
E l’arte t’ha dato la forza di resistere alle avversità quotidiane, di vivere nonostante tutto.
Sono stati tempi duri, al limite del disumano. Solo dinanzi alla pagina bianca, impegnato a costruire un linguaggio altro.
La vita va bevuta a grandi sorsi, diceva il buon Brecht, ma tu l’hai dovuta affrontare solo e disarmato, su di una barca senza vento in poppa, in balìa di venti sconosciuti, tumultuosi a dismisura.
L’hai fatto con forza e senza un lamento di troppo.
Alle volte, quando la solitudine ti spingeva al pessimismo, pensavi alla possibile reazione del lettore con in mano un tuo poema.
Avrebbe reagito sarcasticamente? Un sorrisetto malizioso avrebbe  prevalso sulla scrittura (maledette virgole!), sul tuo stile desueto?
Difficile pensare ad un lettore tipo, ad un fruitore specifico. I più pericolosi sono forse i cosiddetti specialisti, gli addetti ai lavori, che leggono con gli occhi della mente, con strumenti asettici. Tranne, naturalmente, le dovute eccezioni.
E nel lettore privo di particolari clamori che, forse, viene alla luce la capacità di penetrare la scrittura in modo imprevisto di capirne l’intima musicalità, il ritmo vibrante, all’unisono, di cuore e ragione (musicalità dell’anima)
I tuoi versi  sono un’intima sinfonia,  vanno letti  come le note su di un pentagramma,
E’ un discorso incessante della mente che bisogno di riflettersi nello specchio- foglio, per poi ritornare sotto forma di risposta al mittente- artista.
Ricordo le nostre  discussioni su  Benedetto Croce, che considerava l’arte, al pari della conoscenza, intuizione pura capace di risultati creativi anche senza l’intervento dell’intellettualità, un'autonomia del cuore rispetto alle regole logiche del pensiero.
In campo poetico non accettavi più l’idea di una poesia frutto esclusivo dell’ispirazione, quasi un fatto mediatico, un sortilegio benigno che investe il poeta in tempi e modi imprevisti.
Si scrive anche quando la pagina è bianca, dicevi. E non perché l’intuizione/ispirazione alberga in uno spazio ristretto della mente per poi presentarsi a mo’ di folletto creativo. .
E’ l’intellettualità, la visione poetica del mondo, che scrive anche in assenza di penna i segni che danno forma al linguaggio- poesia.
Su questo abbiamo trascorso lunghe giornate, e Croce era divenuto una vera croce (sic!), un supplizio, fino a quando non abbiamo raggiunto un compromesso onorevole.
Io ero libero di pensare a Croce come ad un intellettuale ancora attuale, pur con i limiti dettati dal tempo trascorso e dei mutamenti culturali ,
L’arte come intuizione mi affascina/va e tu ne eri sinceramente sorpreso e incuriosito. Ne sorridevi,  mi sapevi un lirico impenitente e ti divertivi a sollecitarmi in direzione del poema epico, la sola sponda d’approdo che consideravi in grado di aprire un varco sul divenire.
Quando, nella tua vera casa di Via G. Matteotti, che guarda le acque del mare Ionio, scrissi di getto una poesia, e non per gioco o mero diletto, rimanesti turbato, la mia “improvvisa” ispirazione t’era parsa una piccola lama, ma fu uno smarrimento breve, perché il discorso, tempo dopo, si concentrò sull’importanza della “teoria della formatività” di Pareyson, il cui libro “Estetica” t’avevo dato da leggere senza una tua specifica richiesta.
Pareyson, anticrociano, confermava le tue teorie,  specie quando proponeva una concezione dell’arte come “formatività”, cioè come un “fare” che  mentre fa, inventa il “mondo di fare”.
Una collimanza d’intenti impressionante, che ti procurò non poco entusiasmo.
Non volevi essere il Frenhofer di turno, perché Il capolavoro sconosciuto di Balzac   ha  dimostrato l’impossibilità dell’arte di sostituirsi alla vita.
Gli ultimi vent’anni li hai vissuti nella “grotta”, difendendoti delle fiere dai denti di lupo impegnate a scolpire, deformare il volto della verità.
In vent’anni d’amicizia abbiamo  vagliato a fondo la nostra condizione di uomini tra gli uomini.
In noi trovavano spazio anche gli eventi legati alla quotidianità minuta, che, dicevi, bruciano i 2/3 della vita. Eppure, nonostante l’apparente fastidio per certe situazioni incresciose, sapevi come pochi ascoltare gli altri.
Quante volte, a tarda sera, specie d’estate, ti trovavo seduto fuori, assieme alle persone di sempre, con gli occhi fuori delle orbite, stralunato, come un pugile messo alle corde.
L’ artista  è impegnato ad elevare l’uomo dalla sua condizione di essere finito, dalla mancata  eternità.
Ma chi decide d’impegnarsi nell’arte e per l’arte, può farlo a condizione  che dica a se stesso: ” Io sono colui che il mondo aspettava per cambiare le sorti dell’umanità, in me, infatti, s’annida una forza (la forza della parola) capace di superare il limite della quotidianità, la paura ancestrale dell’incognita insita   nell’archè”.
Non era un atto di presunzione il tuo.
Per l’artista ogni giorno è buono e utile per costruire il cammino della conoscenza, al pari  del sacerdote che alimenta il seme della fede.
Un rito quotidiano, quello dell’artista, per mettersi in contatto con mistero del linguaggio, le sue forme inesplorate.
Un rito quotidiano, quello del sacerdote,  per mettersi in rapporto col dio creatore e le sue leggi.
Un parallelismo per niente contraddittorio, il tuo.
Credo che la tua dignità laica  somigliasse molto alla dignità dell’uomo di fede.
Non disdegnavi la fede, e il fatto di non avere ricevuto alcuna “chiamata”, ti ha costretto a vivere nell’alveo dell’arte/vita resistendo così alle avversità del giorno, al silenzio dell’infinito (Dio?).
Uno dei tuoi poemi (Ho danzato con la mia ombra) pubblicato postumo è un’occasione “sconvolgente” per comprendere il dramma dell’uomo laico di fronte al mistero dell’esistenza, alla vastità dell’universo senza voce, informe.
Non superbia, la tua, non agnosticismo, tantomeno ateismo: ma solitudine fonda, l’urlo di Munch moltiplicato all’infinito.
L’elemento salvifico del cristianesimo (come pure dell’ebraismo) ti affascinava per la sua purezza di fondo.
“Forse non sono umile abbastanza, la mia caparbietà laica non mi consente di accettare per fede i dettami della Bibbia (che leggevi in chiave poetica e di cui, come me, respingevi la “violenza” d’alcuni passaggi), mi sono costruito altro e lascerò il mondo terreno senza avere ottenuto la risposta invocata”.
Specie le ultime due settimane, prima di cedere alla falce ghignante, quando ancora trovavi la forza di correggere le bozze dei suoi poemi, mi confidavi non la paura della morte, ma la solitudine (quasi un buco nero) con la quale le andavi incontro.
“Cristo, sulla croce, poté invocare il Padre suo (Deus, Deus meus, quore me deriliquisti?), io non posso invocare nessuno, ma non voglio barare, non l’ho mai fatto, e me ne andrò scortato dal silenzio dell’eterno, con nel cuore ‘solo’ gli occhi innocenti della mia donna”.
Vivere all’insegna dell’arte: una sfida quotidiana assoluta, una battaglia capace di lasciare sul campo corpi senza nome, membra straziate dalla furia bellica.
Ti sentivi come posseduto dal demonio. Bisognava che l’arte- artefice- vittima sfidasse le forma dell’umana solitudine, il silenzio, quasi un inno all’eterno, della caverna dov’eri costretto a rannicchiarti nei momenti dell’angoscia.
Rispetto all’archè, al principio che ha dato origine al nostro sistema solare e con esso all’uomo, scrivi che quest’ultimo (l’uomo) rappresentasse il tentativo fallito dell’Universo di darsi una forma. 
Mentre la realtà “esterna” all’uomo é condannata ad essere informe per leggi interne ineluttabili, così l’uomo è informe perché non eterno. E non solo l’uomo- individuo. che dopo il suo arco di vita si perde nel vortice sconosciuto del dopo, ma anche l’intera specie umana, che nessuna certezza ha dimostrato possa perpetrarsi in eterno.
Il problema, dunque, non è solo stabilire se noi proveniamo da un singolo elemento, da un’ameba, da una cellula ecc., ma se la terra non sia uno dei tanti luoghi dove l’umanità - da sempre- insegue un’eternità dettata da leggi misteriose.
Tu pensi che  eros ed amore sono gli elementi che reggono le sorti dell’umanità.
Eros rappresenta il mezzo per la prosecuzione della specie, appunto, l’amore invece è realtà di cultura, il momento più alto della creatività umana, il tentativo titanico di dare un valore a tale presenza, nobilitare le origini umane perse nel tempo e nello spazio di chissà quale Universo senza volto.
Il significato della parola è stato travolto dall’incapacità di mettere in atto una forma di comunicazione diretta.
I nuovi sistemi di comunicazione,  indubbiamente interessanti, puntano all’omologazione delle coscienze e dunque del linguaggio.
Il tempo è considerato prezioso, si è preda di corse forsennate, non si ascolta l’altro, non esiste l’interlocutore privilegiato,  le affinità elettive si perdono nel vuoto dell’incomprensione, non è più necessario riflettere sulle cose, non conta il rapporto dialettico, parlare risulta inutile, perché con la parola non si mangia, non si compra quello che ardentemente si desidera
Anche la scienza, in sé, è un atto poetico, apre varchi sul divenire, sfronda il libro del pregiudizio, inserisce l'uomo nell'alveo  di processi conoscitivi inesplorati.
Ma essa- scienza-  ripetevi ossessivamente- è in grado di divenire Potere. E con una forza inimmaginabile.
Il timore è che l’uomo venga a costare meno di un  robot. Forse, in quel momento, il potere trasformerà l’uomo  stesso in robot, ammonivi.
Il pudore del poeta: costretto a vivere alla macchia.
La poesia è cosi alta che, se pronunciata al di fuori del suo alveo naturale, provoca ilarità e non pochi sorrisetti maliziosi.
Comunque sia, è possibile opporsi a tale pregiudizio solo superando il pudore, la paura di parlarne pubblicamente.
La cosa ti provocava fastidio ed imbarazzo.
La poesia contiene e scopre mondi possibili in numero maggiore dell’infinito stesso. L’infinito è fermo nel suo essere eterno. La poesia, come l’arte, è in grado di creare quello che non c’è, delineare nuovi mondi, scenari contemplabili nella purezza della loro misteriosa origine, e, tuttavia, incredibilmente sublimi quanto il mistero dell’infinito. Di questo discutevamo nelle lunghe serate invernali, riscaldati dai tizzoni del tuo caminetto che emanavano  inquiete scintille.
Ora che i tuoi cinque poemi, pubblicati postumi, si trovano sul mio comodino avverto  una strano malessere.
Ne conosco il contenuto, ogni brandello della tua scrittura era motivo di confronto quotidiano.
La  fatica era enorme, sfrondavi alacremente le pagine ritenute inutili, le limavi meticolosamente, evitando di lasciare la benché minima asperità.
Rivedo i tuoi gesti, i tuoi sguardi, la luce dei tuoi occhi in attesa di conoscere il mio pensiero.
Anche un solo rigo era in grado di riempire di luce la tua giornata.
La pagina bianca ti sfidava a costruire  segni indelebili, ti spronava a incidere la scrittura  nel tentativo di  trasformarla in arte senza tempo.
La tua presenza, alle volte, era costellata di un particolare silenzio, una strana solitudine.
Cerco d’immaginarti, ti penso impegnato ad elaborare appunti preziosi, di­stillare strane misture, agitare misteriosi liquidi.
Non indossi al­cun camice bianco, ma i tuoi capelli appaiono scomposti come quelli dei grandi direttori d'orchestra che agitano il corpo e le mani alla ricerca di suoni sublimi. Tuttavia, un poeta è un uomo tra gli uomini, pur se impegnato nell'arduo cammino della conoscenza.   Potrebbe ricordare uno scaltro prestigiatore. Ma non è così. Quest'ultimo non crea nulla, compie azioni legate alla stessa ri­petitività mentale e gestuale. Il poeta, invece, occupa uno spazio che lo innalza a protagonista di un'avventura dai connotati im­mensi, di quelli, per intenderci, dove la vibrazione di una fo­glia andrebbe rapportata alla vastità dell'Universo.
I tuoi libri sul comodino contengono un mondo da esplorare con vigore, consegnano all’uomo una testimonianza di sé altissima, ne disegnano il lato più nobile.
                       Oggigiorno si ha bisogno, un bisogno vitale, di poeti, " infernali", ripetevi spesso.
                             Non serve, come per il passato, una poesia contemplativa, tesa a farsi carico dei mali del mondo. Non è tem­po di poeti pacificati con la coscienza, assorti in visioni esta­tiche. 
                            Viviamo (subiamo?) una realtà incandescente, una sorta di magma entro cui ribolle un inferno umano-culturale dal­le proporzioni incalcolabili. La discesa negli inferi è necessa­ria, dunque. Non serve denunciarlo, l'inferno, bisogna viverlo, per poi impegnarsi a realizzare un progetto culturale capace di opporsi alla sua violenza.
                             La poesia non può essere complice di una realtà di cultura che non intende, nemmeno per un istante, affrontare i veri problemi dell'uomo, che hanno avuto inizio nel buio primevo della caver­na e vi permangono dentro l’odierno spazio magico dello Shuttle.                               
                             La poesia ha bisogno di " potere", deve conquistarsi uno spazio al di là della pagina. E' questa la grande sfida , se si vuole veramente sperare in un mondo dove l'uomo torni ad essere protagonista della sua grande quanto inesplorata avventura terre­na, ricordavi a te stesso.
Alle volte, quasi trasognato, dicevi che non ti pareva vero che ad avere scritto quelle “cose” eri stato tu.
Ti sembrava strano aver potuto esprimere una tale energia, perché ti sentivi svuotato, privo di forze, debole come l’ “uomo-canna” di Pascal, il cui pensiero hai voluto fissare sulla tomba di tuo padre ucciso anzitempo da un fulmine nel pianoro di Campolaco proprio quando stava per mettere a frutto i sacrifici d’ex  emigrante.

L’uomo non è che un giunco, il più debole della natura, ma è un giunco pensante.
 Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore,
 una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma, quand’anche
 l’universo intero lo schiacciasse,
l’uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che l’uccide,
perché egli sa di morire e conosce la superiorità
che l’universo ha su di lui; l’universo invece non ne sa nulla (…).
                                                             (Pascal, Pensieri, n.347)


                                         Vincenzo Stranieri,   S.Agata, 0ttobre  2001



                                                                                                                                
                       







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