martedì 28 settembre 2010

L'ETA' MATURA DI SAVERIO STRATI

                LA SUA ARTE E’ LA TESTIMONIANZA DI UN IMPEGNO LETTERARIO CHE AFFONDA LE RADICI IN UN MERIDIONALISMO   PRIVO DELLE  ANTICHE SCORIE A SFONDO POPULISTISTICO.

                                                            di Vincenzo Stranieri

Quando Saverio Strati tornava nella sua S.Agata con una certa regolarità, nella casa della mitica contrada Cola da dove ha avuto inizio il suo importante viaggio letterario, ero ancora troppo giovane per capire appieno l’importanza della sua opera. Nelle nostre brevi chiacchierate (anni ’70), mi colpivano particolarmente due cose: la rabbia positiva che animava la sua arte, l’amarezza, profonda, dello scrittore per la gelosia, la totale mancanza di solidarietà e di spirito di aggregazione che stavano/stanno alla base dell’arretratezza culturale ed economica della Calabria. “C’è sempre stato in Calabria uno spirito feroce di autodistruzione; la storia stessa della nostra regione ha questa terribile impronta”. La stessa gelosia, o ignoranza, che ha impedito, nel 1977, quando gli è stato assegnato il premio letterario  Campiello per il romanzo  “Il Selvaggio di Santa Venere”, alla gente del suo paese di esprimergli  un augurio,  un semplice gesto capace di testimoniare l’orgoglio nei confronti del “compaesano” riconosciuto ancora una volta scrittore valente, testimone e prodotto  di una terra sì periferica e marginale , ma che, grazie anche ai suoi libri, poteva cominciare anch’essa il suo viaggio verso la cultura e dunque verso quel   riscatto socio- culturale agognato da secoli.

Lettera a Giuseppe Melina (S.Agata, 16.03.1920-14.09.2001)

Lettera a Giuseppe Melina

(che per tutta la vita  ha percorso la strada impetuosa  dell’arte)  


Il  tempo ha perduto le ore. Verrà il
giorno.  Entrerò nel cielo da una bassa porta. Sarò nella resurrezione con flauti e leggerò la vicenda-romanzo.
La grazia della zagara chiuderà l’onda breve della vita. E noi ( io, te amico lettore e tutti i convocati) ci allontaneremo dal disordine delle immagini e resteremo parola.
Resto solamente tempo. Lo spazio sarà cancellato dal sorriso di Dio.
(Francesco Grisi)

Caro amico,
fortuna che hai deciso di lasciare il mondo terreno in un tempo che ti ha impedito di assistere alle scene crudeli dell’11 settembre scorso, data da segnare per sempre nel calendario negativo della storia umana, perché, tutti dicono, rappresenta una svolta epocale nei rapporti tra gli uomini e le “diverse”, non necessariamente contrapposte, realtà di cultura.
La follia omicida ha voluto inaugurare alla grande il nuovo millennio e tocca combattere il terrorismo con tutti i rischi che la cosa comporta: incertezza di poterlo fare in tempi brevi e definitivamente, alto rischio di provocare la morte di civili innocenti.
Hai sempre detto, specie negli ultimi anni della tua feconda solitudine, che questo mondo non t’apparteneva, perché troppo legato alle ferree leggi dell’economia, proteso a cancellare le tracce di qualsiasi umanesimo, ormai preda di una tecnologia mistificatrice dei valori veri.
Non eri un rivendicativo, però, non lo eri da  tempo.
T’infastidivano le lagnanze, le denunce allo Stato assente. Sapevi che il problema era l’uomo, la sua vocazione o meno a mutare il corso negativo della storia.
Davi potere ad ogni singolo uomo, non più massa, gregge belante, ma individuo in grado di guardare all’esistenza con occhio non più rassegnato.
Che tutto stava mutando in fretta, una fretta quasi parossistica, t’era chiaro da tempo, e ne soffrivi.

sabato 25 settembre 2010

INVICTUS

INVICTUS
Dal profondo della notte che mi avvolge
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio gli dei chiunque essi siano
per l'indomabile anima mia.

Nella feroce morsa delle circostanze
non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo di collera e lacrime
incombe solo l’orrore delle ombre
eppure la minaccia degli anni
mi trova, e mi troverà, senza paura.

Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la vita.
Io Sono il signore del mio destino:
Io Sono il capitano della mia anima.

Invictus di William Ernest Henley

venerdì 24 settembre 2010

MASCHERE

MASCHERE

Gli atleti del successo
a tutti i costi s’alzano
di primo mattino,
gonfiano i muscoli del petto
come a darsi un contegno e,
quasi fosse cosa normale,
indossano una delle tante
maschere custodite
nei loro capienti armadi.

(Vincenzo Stranieri)

giovedì 23 settembre 2010

Intervista a Vincenzo Stranieri



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Di FRANCESCO ARDINO.
Com'è nata l'idea di questa corposa ricerca storico-antropologica?
L'idea è maturata circa dieci anni or sono, quando cominciai a partecipare alle iniziative del Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo dell'Università della Calabria diretto dal Prof. Vito Teti.
Cosa significa Koiné?
E' un termine mutuato dall'antico dialetto greco, risale addirittura al periodo pre-ellenico. Significa mondo, universo, cultura. Pertanto, risulta adatto per definire le forme di un popolo e/o di una comunità. Mi è stato suggerito da un mio caro amico, Enzo Bartolo.
Ho notato che i pastori della Vallata La Verde - che nel libro trova ampio spazio, quasi ad essere elemento guida della sua ricerca antropologica,- si spostavano, specie quando l'erba era scarsa, dai luoghi montani verso la pianura. Dove, precisamente?
Anche per pastori della Locride la transumanza era un evento faticoso; pertanto, quando scarseggiava l'erba, erano costretti a trasferire i loro greggi presso i verdi pascoli di Marasà e Centocamere, poco lontano da Locri. Non le distanze percorse dai pastori d'Abruzzo, ma pur sempre uno sradicamento dai luoghi d'origine.
Nella premessa, lei accenna a curiosità e pregiudizi inerenti i pastori. Vuole meglio spiegarci di cosa si tratta?
Sui pastori vigevano tutta una serie di curiosità e racconti popolari a sfondo magico. Avendo modo di frequentare boschi e luoghi isolati, s'era affermato tra la gente dei villaggi vicini il convincimento che fossero depositari di eventi magici. Un albero, una caverna, un dirupo, un cespuglio, un elemento materiale significavano misteriose alchimie, riti maligni. Da qui tutto quel repertorio classico di folletti, ninfe, spiriti vari che, per la gente comune, riguardava la vita dei pastori, la loro natura aspra e selvaggia, il loro coraggio di vivere isolati e lontani dalle famiglie nei lunghi mesi invernali della transumanza, dormendo in ricoveri poco confortevoli, inadatti a ripararli dalle intemperie, specie quando le piogge cadevano ininterrottamente anche per diversi giorni.
Lei, unitamente al Prof. Teti, nel libro, sottolinea non poco il ruolo rivestito dai cultori locali. Vuole spiegarsi meglio?
Negli ultimi anni ho più volte avuto modo di verificare il ruolo per nulla secondario svolto dai cosiddetti cultori locali, che, senza clamore, "soffiano" sulla polvere della storia secolare dei nostri luoghi. Sono dei ricercatori in proprio che lavorano al di fuori dell'ambito universitario, e, spesso, nella più completa solitudine. In zona, per fortuna, il loro numero é in aumento. E ciò rappresenta un motivo di speranza. Quando Corrado Alvaro scrive in "Gente in Aspromonte": "E' una civiltà che scompare, e su di essa non bisogna piangere, ma trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie", intende appunto sollecitare il recupero di quella coscienza storica senza la quale tutti gli avvenimenti perirebbero nel nulla. Conservare la memoria antropologica di una comunità - Vito Teti lo spiega molto bene nell'introduzione al libro- vuol dire scolpire l'uomo nel suo lungo viaggio verso la conoscenza, contribuire alla conoscenza di una civiltà millenaria che chiede, con diritto, una sua legittimazione storica.
Ma la pastorizia era realmente redditizia?
La pastorizia, nonostante tutto, è stata un importante strumento economico per la crescita delle comunità in cui veniva praticata, rappresentando quasi sempre una fonte di reddito certa.
Nel libro vi è un lungo capitolo relativo alla vocazione poetica dei massari e dei pastori della Vallata La Verde. Di cosa si tratta?
E' vero, la Vallata La Verde presenta significative peculiarità:. Un discreto numero di massari e pastori è cattolico praticante, e, cosa non certo secondaria, compone, pur se analfabeta, versi dialettali di notevole tensione lirica. Ho rintracciato quattro pastori/poeti e quattro contadini/poeti, tra cui una donna.
Per finire, cosa ha inteso affermare con la sua ricerca storico-antropologica?
Non ho di certo inteso proporre improbabili ritorni a saperi ormai estinti. Ho cercato, invece, di rileggerli per inserirli in nuove forme di saperi locali che non taglino i ponti col passato. Oggi dobbiamo amaramente registrare che quanti tentano di valorizzare le ricchezze e la bellezza della nostra regione non sempre ottengono risposte/proposte concrete presso i nuovi ceti sociali e politici.
(Da La Riviera del 14/03/2010) »


lunedì 20 settembre 2010

Rocco Piteri (Caraffa del Bianco, 1913- 2003), contadino-soldato sul fronte russo


1943, fronte russo. Rocco Piteri  soldato a cavallo.




Caraffa del Bianco, 31 marzo 1940, data rilascio carta d'identità a Piteri Rocco, a firma del Podestà Rocco Mezzatesta.
 




Caraffa del Bianco, maggio 1993. Rocco Piteri  in groppa al suo asino.
 Rocco Piteri, contadino, ha partecipato alla seconda guerra mondiale combattendo duramente sul fronte russo. A 29 anni, nel settembre del 1942, dopo un viaggio lungo e inenarrabile, giunse nel luogo prestabilito. Qui partecipò alla definizione di un ospedale da campo che di già ospitava molti  commilitoni feriti e/o con degli arti  assiderati. Uno spettacolo terribile, che avrebbe accompagnato il Nostro per tutta la vita. Dopo tre lunghi anni di guerra, dove rischiò più volte la vita, fece finalmente ritorno nella sua amata Caraffa dove, poco tempo dopo, si sposò   con Maria Cavallaro che gli diede due figlie,  Maria Teresa e Angela.

lunedì 13 settembre 2010

APPELLO GENERAZIONALE

Quello che chiedo a tutti, specialmente alla mia/nostra generazione, è di non tradire la nostra infanzia, di custodirla come un dono prezioso e di pensarci ancòra "cotraregli" con nel cuore la voglia di dare al prossimo il meglio di noi stessi. Io vi porto tutti nel cuore, e, quando la solitudine m'inquieta più del dovuto, percorro le nostre "rughe" silenziose dove neanche i cani latrano, le finestre sono sbarrate e ognuno é in attesa del giorno. In quei momenti ritorno bambino e assieme a tutti voi ripercorro festoso le vie popolate della nostra  infanzia.Amo la mia/nostra terra perché mi protegge dall'urbanesimo forzato, mi offre serenamente tutta la sua storia antropologica.

mercoledì 8 settembre 2010

ANTONIO IOFRIDA (Caraffa, 6 giugno 1900- 14 aprile 1959), Massaro.

Figlio di Bruno Iofrida (massaro) e di Marrapodi Giulia, Antonio, unitamente al padre e ai suoi fratelli, cominciò da bambino la sua vita di pastore. La sua era una famiglia che tradizionalmente viveva grazie a tale mestiere, ma al piccolo Antonio tale sorte non garbava, avrebbe voluto studiare, progredire sul piano sociale. E a fatica, mentre badava alle bestie, riuscì a imparare a leggere a scrivere. Ma la vita agreste fu presto interrotta dalla chiamata alle armi (aveva compiuto da poco 18 anni!). La partecipazione alla Prima Guerra Mondiale fu un’esperienza che lo segnò tantissimo, ma almeno era tornato vivo in Calabria, cosa, purtroppo, che non riuscì a suo fratello Giuseppe, morto a vent’anni sulle montagne del Carso.
Antonio Iofrida prese moglie nel 1930, la sposa, Teresa Viglianti, figlia di massaru Giuseppe Viglianti, gli diede cinque figli (Giulia. Bruno, Giuseppe, Elisabetta e  Maria.). Nel 1940 tentò la fortuna in Germania, ma capì che era meglio pascolare le pecore piuttosto che stare in miniera a spalare carbone, e tornò a Caraffa dopo appena un anno. All’apice della sua carriera, riuscì ad avere una mandria alquanto numerosa (circa 800 lattare tra pecore e capre).  Ancora oggi è ricordato per la sua onestà e il buon senso adoperato nel corso della spartizione dei prodotti.


ANTONIO IOFRIDA (Caraffa, 6 giugno 1900- 14 aprile 1959), Massaro.
1918!. Soldati in posa. Il primo, seduto  in basso a sinistra, è Antonio Iofrida.

Giuseppe Iofrida,(1896-1917), pastore, morto nel corso della Prima Guerra Mondiale.